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Settefrati

Lascito testamentario di d. Giovanni Macari di Settefrati (25 settembre 1656)

Il 25 settembre 1656 d. Giovanni Macari di Settefrati, con testamento olografo, firmato da cinque testimoni, scriveva le sue ultime volontà circa la destinazione da dare ai suoi beni dopo la sua morte.

Tra le sue disposizioni spiccava il lascito fatto alla chiesa di S. Maria di Canneto, che iniziava con la rituale formula: “Parimenti lascio alla Madonna di Candeto (sic!) …”.

Lasciava otto appezzamenti di terra in gran parte aratoria, siti in territorio di Settefrati in diverse località: a Guado Sambuco o S. Angelo, alla Botte, alla Strasinara, alla Grotta di Chesa e a Colle Zappitto, alle seguenti condizioni:

  1. che dette terre passassero in proprietà della chiesa di Canneto il giorno immediatamente susseguente alla sua morte;
  2. il fittuario di tali beni consegnasse ogni anno “una misura di scandole” per il tetto della citata chiesa;
  3. dal momento che la chiesa della Madonna aveva il suo eremita, che era capace di fare le scandole e lavorare le terre donate, si affidassero a lui tutti e due i compiti, relativi alle scandole e alla coltivazione;
  4. qualora l’eremita non accettasse la proposta, si doveva interessare di tali questioni e risolverle positivamente l’ultimo sacerdote di Settefrati, che aveva fatto gli studi nel seminario di Sora.

Dopo appena due anni il generoso testatore passò a miglior vita e pertanto il 23 dicembre 1658 il notaio Bartolomeo Riccardo di Sora diede esecuzione al suo testamento e in particolare al lascito fatto alla Madonna di Canneto.

Il documento è inedito e tra l’altro ci fa conoscere due notizie di rilievo riguardanti la chiesa di Canneto.

La prima è che nel 1656 il tetto dell’edificio sacro appariva coperto a scandole, cioè di sottili tavolette di legno, atte per costruzioni d’alta quota. Una notizia questa che tocca direttamente il tema generale della presente ricerca storica.

La seconda è che fin dal detto anno la dimora alpestre della Vergine Bruna teneva il suo eremita. Una bella notizia, che fino ad oggi non risultava.

Il primo eremita finora conosciuto era Domenico Gizzi di Settefrati (1691).

In merito alla parola “scandola”, oggi pressoché sconosciuta, il grande dizionario italiano Garzanti spiega: “sottile tavoletta di legno usata per la copertura di tetto in zona di montagna”.

Siamo al caso della chiesa di S. Maria di Canneto. Il fittuario delle otto terre lasciate alla Madonna da d. Macari doveva fornire ogni anno un certo quantitativo di scandole o tavolette. È difficile oggi quantificare quell’ “una misura di scandole”, che lui doveva dare annualmente.
L’eremita di Canneto del 1656, quantunque non ne conosciamo il nome, sapeva tuttavia fare le scandole o tavolette e lavorare la terra.
Ma suo compito precipuo era quello di attendere e custodire la chiesa della Madonna, soprattutto nei lunghi inverni, e di segnalare ogni necessità o inconveniente, che là si verificasse, prima all’arciprete di Settefrati, dal quale direttamente dipendeva e, tramite questo, ai superiori del seminario di Sora, che amministravano il grande beneficio di Canneto.

Ma già in quell’epoca e molto di più nelle epoche successive, anche alcune altre insigni chiese isolate e fuori degli abitati, come S. Maria del Campo di Alvito e S. Maria di Picinisco, per volontà dei vescovi diocesani, avevano il loro eremita.

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