Paolo Mattia Castrucci (1575-1633), storico di Alvito, come il suo concittadino Giulio Prudentio (1574) di poco anteriore, al pari di ogni buon Alvitano, da sempre devoto della Madonna Bruna, un giorno volle farsi anche lui pellegrino di Canneto, salendo dalla parte di Settefrati attraverso quel medesimo sentiero, che avevano già percorso da secoli generazioni di devoti, per visitare la chiesa della Vergine e godersi le meraviglie di quella valle incantata.
Egli nella sua unica pubblicazione: «Descrittione del Ducato d’Alvito nel Regno di Napoli» (1633) ci ha lasciato il ricordo incancellabile di quel suo viaggio a piedi, che egli, parlando di Settefrati, descrive minuziosamente in alcune pagine, ridondanti di particolari paesaggistici, di immagini e di similitudini, non sempre appropriate, volte a meravigliare il lettore, secondo le mode di uno scrittore del primo seicento letterario italiano.
Ne riassumo qui il racconto, cogliendone i tratti essenziali e trascrivendolo in linguaggio corrente.
Il vero pellegrinaggio iniziava dalla Madonna delle Grazie di Settefrati, seguendo un sentiero, che andava verso il levante estivo e che dopo un certo tratto pianeggiante iniziava a salire verso le alte ed erte montagne dell’Appennino.
Il viottolo si snodava in una serie di serpentine, che erano state scavate e ben sistemate dai cittadini di Settefrati e che rendevano meno faticosa l’ascesa.
C’erano dei tratti in cui la via passava tra rupi a strapiombo, sotto l’ombra di alberi d’alto fusto, che riparavano il pellegrino dai raggi cocenti del sole estivo. A confortarlo lungo la mulattiera e a rendere meno noioso il suo viaggio c’era il canto di svariati uccelli, che nidificavano a quelle altezze.
Dopo due miglia di cammino si arrivava finalmente in una “valletta” dove su un poggio era posta la “devota chiesa della Madonna di Canneto“.
Nell’entrarvi si sentiva un “sì suave freddo e pio orrore” che nel cuore del pellegrino destava un sacro rispetto, misto a timore e pietà per quel luogo così sacro e venerando.
«Tra queste selve amene, sacre solitudini, ed orrori venerandi si trovava la piccola chiesa della Beata Vergine di Canneto, con certe poche stanziole, fabbricate da un romano, fuggendo la Corte di Roma con il desiderio di essere riportato e sepolto nella sua amata chiesetta tra i monti e quando ciò avvenne, vi successe un so che miracolo».
Alla sua morte il pio prete lasciò alla chiesetta un legato con un reddito annuo di 200 scudi, ora unito al seminario di Sora. A Canneto restava solo la sua tomba senza alcuna iscrizione, alla quale faceva da cornice la bellezza del luogo e quella sacra solitudine.
Non lontano dal tempietto si trovavano le sorgenti del Melfa (“la bella Melfi”), che formava un ameno laghetto con all’intorno un “boschetto di drittissimi faggi” e brevi lembi di terra coperti di erbette, di fiori e fragole. Un luogo fresco ed ombroso al riparo del sole cocente dei meriggi estivi, dove lo stanco pellegrino poteva tranquillamente sostare, rifocillarsi e riposare.
Le sue acque erano quanto di più meraviglioso e dilettevole si potesse ammirare. Erano limpidissime così da lasciar vedere il fondo arenoso, dove qua e là rilucevano “certe scintille d’oro”; freddissime al punto da non potervi tenere la mano dentro se non per pochi istanti e perciò non c’erano trote, che invece si rinvenivano a quote più basse del fiume…
Queste acque, dopo aver lasciato il laghetto, prendevano il largo, lambendo le due rive e poi, giunte sotto il poggio dove era situata la chiesetta della Madonna, scomparivano rumoreggiando nelle valli sottostanti.
Nel racconto del Castrucci di Alvito troviamo il primo diario del pellegrino a Canneto, che ci fa conoscere i momenti più salienti della sua giornata passata su quei luoghi alpestri: la lunga e faticosa marcia tra le balze e le fitte faggete, l’arrivo alla meta sospirata, la visita alla Madonna e poi il ristoro e il riposo a Capodacqua, dilettandosi ad intervalli a ricercare le “scintille d’oro” e nel pomeriggio, dopo un ultimo saluto alla Vergine, riprendere la via del ritorno verso
casa.
Immagini, gesti ed esperienze di sempre. Allora, come ai nostri giorni. All’epoca dello storico alvitano era ancora vivo il ricordo dell’abate d. Federico de Manlion, a un secolo esatto dalla sua morte. Era lui il preposito di cui lo scrittore parla senza dirci il nome, perché non era scolpito nemmeno sulla sua tomba, che si trovava nella chiesetta di Canneto.
Era lui che aveva costruito quelle “stanziole” e che aveva espresso il desiderio di riposare per sempre accanto a quella Vergine Bruna, che tanto aveva amata e fatto amare. Era figlio della cattolica Spagna e non di origine romana.