Settefrati, comune della Valle di Comino, appartiene al Mandamento di Alvito, al Circondario ed alla Diocesi di Sora e al Distretto militare di Frosinone; dipende dal Tribunale Civile e Correzionale di Cassino, dalla Corte di Assise di S. Maria Capua Vetere e dalla Corte di Appello di Napoli. Fa parte del Collegio elettorale di Sora con 220 elettori politici iscritti. Dista Km. 11 da Alvito, 26 da Sora, 42 da Cassino, 106 da S. Maria C. Vetere, 112 da Caserta, 132 da Napoli.
Confina al Nord col monte Colle Nero (a 1997 metri sul livello del mare), all’Est col Monte Meta (2241 m.), al Sud col comune di Picinisco e all’Ovest coi comuni di Alvito e San Donato Val di Comino.
Il territorio settefratese è attraversato da Nord a Sud dalla Melfa, affluente di sinistra del Liri; esso nasce da un ramo d’acqua che scende dal Monte Meta, bagna a destra Settefrati, passa presso Picinisco, Atina, dove alimenta l’importante e fiorentissima Cartiera dei Fratelli Visocchi, lambisce le terre di Casalattico, di Casalvieri, di Santopadre e sbocca nel Liri presso S. Giovanni Incarico, dopo un corso di quasi 60 chilometri. Fra i torrenti e i rivi che affluiscono nella Melfa, sono solo degni di menzione il Mollarino ed il Rio Molle, affluenti dell’alto corso.
Settefrati giace sulla riva destra della Melfa, a 784 metri sul livello del mare, e conta oggi circa 3.000 abitanti, in gran parte contadini benestanti e artigiani. Dai censimenti fatti nel nostro secolo risulta che le famiglie di Settefrati sono cresciute sensibilmente: infatti nel 1816 Settefrati aveva 1.877 abitanti, nel 61 ab. 2.248, nel 71 ab. 2.579, però nell’81 ab, 2.582 e nel 1901 ab. 2.342. Le cause della diminuzione di popolazione dall’81 al 901 si devono ricercare nell’emigrazione permanente all’estero, che è un fenomeno dell’ultimo ventennio.
Quali le origini e la storia di Settefrati?
Le origini sono oscure. Però lo stesso nome cristiano di Settefrati, come quello di S. Donato, ci dice che la denominazione di questo paese non è anteriore al martirio dei Sette fratelli, figli di S. Felicita, avvenuto nel 161 d. C.
Nel Martirologio della Chiesa Cattolica, opera del tempo di Sant’Antero (morto il 236), si narra “sub die X Iulii” che i Sette fratelli, figli di S. Felicita, perché banditori della fede cristiana, subirono dinanzi la madre il martirio, sotto l’Imperatore Antonino.
"Romae passio sanctorum septem fratrum, filiorum sanctae Felicitatis, Martyris, idest, Januari, Felicis, Philippi, Silvani, Alexandri, Vitalis, et Martialis, tempore Antonini Imperatoris, sub Praefecto Urbis Publio: ex quibus Ianuarius post verbera virgarum, et carceris macerationem, plumbatis occisus: Felix et Philippus fustibus mactati; Silvanus praecipitio interemptus; Alexander, Vitalis, et Martialis capitali sententia puniti sunt".
Fin qui il Martirologio, a cui fo seguire il seguente commento.
La chiesa il 23 novembre celebra la festa di una dama romana di nome Felicita, decollata quattro mesi dopo il martirio dei suoi sette figliuoli; i quali furono uccisi nel 161, durante la persecuzione contro i fedeli di Cristo, e sono festeggiati dai Cristiani il 10 luglio di ogni anno. A Settefrati, in questo giorno, è festa solenne, perchè i Sette Fratelli sono i santi protettori del paese, cui hanno dato il nome.
Gli atti del martirio della santa madre raccontano che essa, rimasta vedova, votò a Dio la castità e passò la vita solo intenta nell’educare cristianamente i figli; e che da Antonino Pio (138-61), già obbligata invano altre volte a sacrificare agli Dei falsi e bugiardi, fu, per l’altero rifiuto a tale empietà, condannata al martirio.
Il suo sacrificio supremo non fu solo la decollazione: piú straziante e inumano fu l’aver dovuto assistere al supplizio dei suoi sette figliuoli, da lei incoraggiati con parole piene di fede e di speranza a sopportare i tormenti più feroci, per glorificare Gesù Cristo.
Raggiunta la palma del martirio dopo i figli, fu sepolta in Via Salaria Nuova nel Cimitero di Massimo: ivi nel novembre del 1884 l’archeologo G. B. De Rossi, mentre si gettavano i fondamenti della fabbrica dell’ing. Nodari, scopri un affresco pregevolissimo del settimo secolo, raffigurante S. Felicita coi sette suoi figli e colle iniziali dei loro nomi.
Ecco spiegato come nei primi secoli dell’era cristiana, in cui la forte fede compiva mirabili atti di eroismo, gli abitanti di un villaggio di Cominium (1) si entusiasmarono alla storia di amore, di martirio e di gloria dei Sette Fratelli, ad essi narrata dagli evangelizzatori provenienti da altre città, e diedero cosi il nome di Sette Frati al loro castello e poi lo stesso nome (2) ad una chiesa parrocchiale e quello di S. Maria al tempietto pagano di Canneto.
Occorre notare però che il nome di Cristo non poteva essere ignoto agli antichi abitatori di Settefrati, perché nella vicina Sora fin dall’anno 161 predicava la nuova religione S. Giuliano, martirizzatovi presso il tempio di Serapide. Il sangue di questo giovane dalmata, protomartire della terra sorana, fu seme di cristiani, tanto che il 272 Sora meritò una sede vescovile. Nella regione sorana i nuovi credenti furono
(1) Cominium, distrutta città lei Sanniti Caraceni, era situata verso i pendii occidentali degli Appennini, fra Alvito e S. Donato. In queste adiacenze si sono scoperte monete del periodo imperiale, idoletti, bassorilievi architettonici, lapidi con nomi di magistrati repubblicani ed altro dell’epoca romana. Settefrati doveva essere un villaggio di Cominium.
(2) In Settefrati vi è la parrocchia dei Santi Sette Fratelli e una moderna chiesa dedicata agli stessi, ma chiusa al pubblico, perchè, costruita solo nelle mura principali, non fu mai intonacata per un sogno strano di una donnicciuola esaltata, per il quale si credette dal popolino che Dio non voleva essere adorato in quel luogo.
Inoltre, in memoria di S. Felicita si è a Settefrati una cappellina con acqua miracolosa, dove vanno a tuffarsi i rachitici; e in onore di S. Felice, secondo figlio di S. Felicita, ucciso a colpi di bastone, fu eretta una chiesa nel Cominese, in “actu S. Urbani”, donata a Montecassino con cento moggia di terra circostante dal conte marso Oderisio nel 1010; cosi l’Ostiense.
confermati nella fede dall’apostolato di S. Restituta, martire nel 275. Inoltre la vicinissima Atina ebbe per vescovo S. Marco Galileo nell’anno 42 dell’era volgare per volere di S. Pietro istesso ed altri ferventi propagatori di fede nei vescovi successori Fulgenzio (a. 95) e Massimo (312), che fondarono chiese in Atina e nelle ville circostanti.
Dalla Cronaca Atinese si sa pure che, durante la prima metà del IV secolo, le dottrine cristiane furono apertamente professate nel Cominese: ciò concorda con l’editto di Costantino, dato a Milano nel 313, il quale concedeva la pubblica libertà di culto alla Chiesa cristiana e con quello di Valentiniano Flavio Placido, del 435, che spronava ad abbracciare la nuova religione.
Dal suesposto risulta chiaro che Settefrati, benchè la sua origine di pagus sia anteriore, prese tal nome verso il quinto secolo, tenuto pur conto che i nostri corregionali furono e sono restii ad abbracciare nuove idee. Questa opinione è suffragata da Paolo Orosio, storico del V secolo e discepolo di Sant’Agostino (334-430), il quale nella sua Storia contro i pagani dice che questi, anche quando la religione di Cristo fu dominante e statale, adoravano, nei villaggi, ancora gli dei di Olimpo.
Ma un documento molto importante, che esplicitamente nomina Settefrati per la prima volta, ci è dato da Leone Ostiense (secolo XI), il quale, parlando nella sua Cronaca delle chiese disseminate nel Cominese ed appartenenti alla sua Badia di Montecassino, cita pure la chiesa di S. Paolo «in pertinentia Castelli Septemfratrum», donata ai Benedettini Cassinesi nel 1012.
Ora, se Settefrati nell’alba del secolo XI aveva una chiesa ritenuta già di una certa importanza nelle carte dell’epoca, è presumibile che attorno ad essa già da qualche tempo si fosse edificato un nucleo di abitazioni, se non altro, di gente rurale. E poichè fin dal 1012 si parla anche di un Castello (1) in Settefrati, questo ci dice che il nostro Settefrati era un borgo: feudo dipendente da un Vassallo.
Chi era questo signore feudale e da chi dipendeva egli?
Qui è da ricordare che nel sesto secolo sorse il Ducato di Benevento e Zottone, primo duca, saccheggiò nel 389 il Cenobio Cassinese, (2) distrusse la città di Atina e si impadronì a viva forza delle terre altrui, delle quali molte della Valle Cominese e della Valle Sorana che appartenevano a Montecassino.
Nel 744 Gisulfo, altro duca beneventano, riparò ai danni del feroce predecessore, donando alla Badia Cassinese le terre che questa aveva già possedute ed altre nuove. Di tale donazione non esiste più il Diploma originale: però essa si trova confermata in una bolla di Papa Zaccaria del 745, nel precetto di
1) Chiamando castellum Settetrati, l’autore ci fa sapere che questo era un luogo abitato, munito di torri, di fortilizio e di fosso, perché in questo senso l’Ostiense usa detto vocabolo. Delle torri medioevali una era dove ora sta il Palazzo Comunale, ed un’altra si vede ancora, a sinistra della chiesa madre, ben conservata.
(2) “Poco innanzi all’anno 590 fu presa e distrutta da Zottone la città di Atina. E vi trovò la morte, in quell’occasione, anche il vescovo Felice” Così Ferdinando Hirsch nel Ducato di Benevento.
“Pelagius papa (556-561) ordinavit in civitate Atina Felicem episcopum, qui sedit a. 30 d. 19. Iste construxit ecclesiam S. Mariae, quae parva dicitur, et mortuus est martyr a duce Beneventano, destructa etiam civitate et ecclesia majore” Chronica Atinensis
Desiderio del 761 e in un diploma di Carlo Magno del 787.
Così tra il 1011 ed il 1022 Verardo, figlio di Punzone e di Quinizo, figlio di Stefano, giura ad Atenolfo, abate di Montecassino (1011-22), fedeltà come vassallo della contea di Sora; la quale allora comprendeva anche Settefrati ed apparteneva ai Benedettini Cassinesi. Ciò risulta dal Regesto di Pietro Diacono (fol. CCLV, n. 619), cronista cassinese del secolo XII.
Ma, nella seconda metà del secolo XI, le terre della Valle di Comino passarono sotto altri padroni. Infatti, nel Catalogus Baronum del Regno Napoletano descritto al tempo dei Re Normanni da G. Boni, si legge al capitolo «Domini de Aquino» che «Lan. dulphus de Aquino, sicut dixit Atenulphus Casertanus, tenet a Domino Rege Septem fratres, quod est feudum III militum et octavam partem Aquini».
I Signori de Aquino discendevano da un ramo dei duchi langobardi di Benevento e con audacia senza pari erano riusciti a salire, con conquiste di terre importanti, dal grado di Gastaldi a quello di Conti. Durante il tempo in cui fu abate di Montecassino Desiderio (1053-87), la loro potenza dominò anche la Valle di Comino.
In questo tempo si infeudarono nel Cominese i varii fratelli della famiglia d’Aquino, fra cui Landolfo, che fu pure signore di Settefrati e il fondatore del Castello di Alvito, opera della fine del secolo XI, come chiaramente dice la lapide che sotto la dominazione dei Duchi Cantelmo (1350-1497) vi era incastrata al sommo della porta principale: «Si petis artificem, Landulphus sit tibi nomen»: se domandi del fondatore, il suo nome è Landolfo.
Pochi e monchi sono i documenti che restano del governo dei Conti d’Aquino nel Cominese e specialmente in Settefrati.
Settefrati seguì le sorti di Alvito nella buona e nell’avversa fortuna. Nel 1139, dice la Chronologia, che il re normanno Ruggero conquistò al Reame di Napoli il Cominese. Succeduti gli Svevi, Arrigo VI lo ridonò nel 1194 a Montecassino, a cui lo ritolse Federico II nel 1229, il quale «cacciando dalla Valle di Comino le genti papali, ogni cosa a sua devozione ricondusse», dice il Galeotti. Il detto Imperatore prima vi nominó un suo governatore, poi, verso il 1248, diede il Cominese ad Adenolfo di Aquino, alla cui famiglia rimase per molto tempo.
Dopo la vittoria di Carlo d’Angiò su gli Svevi a Benevento (1265) e a Tagliacozzo (1266), questi, come re di Napoli, si diede a perseguitare i Baroni avversi a lui. I Signori D’Aquino, poichè erano tra i vassalli che non gli avevano reso omaggio, vennero privati dei loro feudi. I fratelli D’Aquino erano: Federico, Iacopo, Tommaso, Adenolfo ed Enrico.
Per punire il tradimento di Tommaso d’Aquino, Carlo I d’Angiò, con decreto del maggio 1273, lo spogliò dei beni feudali che possedeva nei castelli di Settefrati, Alvito, S. Donato e Campoli, investendone Ugone de Crittillon. Costui, prendendo in cambio il castello di S. Giovanni Incarico, rinunciò ai detti beni, che il Re concesse ad Eustasio de Faylle.
Carlo II d’Angiò (1248-309) li diede successivamente a Pietro de Cornay e a Goffredo de Jamville nel 1293, da cui li ereditò il figlio Filippo. Da questi li acquistò Giovanni Pipino e li diede in dote alla figlia Maria, moglie di Adenolfo d’Aquino. Re Roberto d’Angiò con regesto del 1313 convalidò tale donazione.
Ma il Cominese non era tutto ritornato nelle mani dei fratelli D’Aquino. Adenolfo ricomprò da Guarnazzone di Anagni nel 1318 la dodicesima parte del castello di Alvito ed altre parti di Settefrati, Sandonato e Campoli.
Nel 1303 Cristoforo d’Aquino si titolava conte di Ercole, signore del castello di Alvito, di Settefrati, di S. Donato e di Campoli. Ma osò di raggiungere l’intento senza l’assenso del Re e, d’accordo coi suoi dipendenti di Alvito, di Settefrati ecc. resistè al re col negargli un tributo annuale. Minacciato di espulsione, si arrese e divise le sue terre cominesi fra i suoi tre figli; Adenolfo II, Berardo e Cristoforo. Il quale ultimo morì, lasciando solo la figliuola Margherita, la quale nel 1313 cede agli zii Adenolfo II e Berardo la terza parte di Alvito, Settefrati, Sandonato e Campoli che possedeva per successione paterna.
Il disegno di riconquistare tutto il Cominese fu ripreso da Adenolfo II. Coadiuvato dal fratello e favorito da Re Roberto d’Angiò (i309-43), il quale, tra l’altro, lo decorò del cingolo militare nel 1317, dandogli facolta di imporre ai suoi vassalli di Alvito, Settefrati, San Donato e Campoli una sovvenzione per sopperire alle spese dell’acquisto del segno onorifico.
Nel 1320 il Re riscattò quasi interamente i beni che prima i D’Aquino possedevano in Alvito, Settefrati, S. Donato e Campoli, a favore di Adenolfo II.
Nel 1321 questi morì, lasciando un bambino, che nel 1337 tolse il comando al reggente zio paterno Berardo e ricevè dai vassalli il giuramento di fedeltà.
Costui si chiamò Adenolfo III, il quale morì tra le macerie del Castello di Alvito nel terremoto del 9 settembre 1349, che distrusse il Cominese, il Monastero Cassinese e la terra di S. Germano.
Come poi Settefrati dalla dominazione dei Signori feudali D’Aquino (1270-382) passò a quella dei Cantelmo (1384-497), di Ioffrè Borgia (1497-506), di Pietro Navarro (1507-15), dei Cardona (1513-92) e in ultimo dei Gallio (1595-1806) è narrato con ricchezza di particolari e di documenti dal Santoro in Pagine Sparse di Storia Alvitana, alle quali rimando il cortese lettore.
Dal libro “Settefrati e il Santuario di Canneto nella Leggenda e nella Storia” (1910) di Achille Lauri